
Italia
L’Italia ha una superficie di circa 322.000 km2, mentre entro i confini politici la sua superficie è di 301.277 km2. Lungo l’arco alpino l’Italia confina a occidente con la Francia, a nord con la Svizzera e l’Austria, e a est con la Slovenia. Il confine marittimo è costituito a occidente dal Mar Ligure, dal Mar Tirreno e dal Mar di Sardegna (a ovest dell’isola da cui prende il nome), a sud dal mar di Sicilia, e SE dal mar Ionio e a est dal mar Adriatico, comprendendo in questo confine numerose isole e arcipelaghi.
Le coste italiane
Le coste italiane sono caratterizzate sia da marine basse e uniformi (specie nel versante adriatico, proprio come a Sottomarina) sia da scogliere alte e frastagliate che formano numerose baie e golfi (di Genova, Gaeta, Napoli, Salerno, Taranto, Trieste, Venezia, Policastro, Sant’Eufemia, Squillace, Manfredonia).
Rilievi
Il sollevamento delle Alpi e degli Appennini si è verificato in seguito al congiungimento alpino-himalaiano nel periodo Cenozoico. La fisionomia del paese si è meglio definita nel periodo Neozonico in seguito ai fenomeni eruttivi, al modellamento esercitato prima dai ghiacciai e in seguito dalle acque, e ai depositi alluvionali che crearono le pianure. Il territorio dell’Italia si presenta in massima parte accidentato, poiché è costituito per l’80% da colline e montagne, e solo per il 20% da pianure.
Clima
Le condizioni termiche variano notevolmente da zona a zona, ma soprattutto da nord a sud, non tanto in estate quanto in inverno: a parte le aree montuose, a Milano in media si hanno in luglio 24° e a Palermo 26°; rispettivamente, in gennaio le medie sono di 1° o 2° a Milano, e 12° a Palermo. Quanto ai venti, l’Italia rimane nell’area di influenza dei venti occidentali, di ovest e di sud-ovest soprattutto, che sono apportatori di piogge. Tra l’inverno e la primavera spirano anche venti da nord e da nord-est (bora). In estate, lungo le coste e nelle vallate intermontane prevalgono i venti locali di brezza.
Popolazione
Le prime tracce di frequentazione ‘umana’ del territorio italiano risalirebbero almeno a circa 700.000 anni fa, mentre una prima intensificazione del popolamento può essere datata al 6° millennio a.C., quando la popolazione neolitica dell’Italia appare ben strutturata in comunità territoriali stabili, dedite all’agricoltura e all’allevamento (forse transumante), oltre che a caccia, pesca e raccolta, e organizza con continuità spazi insediativi e produttivi, sistemi sociali articolati, scambi a medio-lungo raggio e complessi culturali longevi. In nessun momento successivo al Neolitico si rilevano fratture nell’evoluzione demografica e nei modelli culturali: le popolazioni che raggiungeranno l’Italia in seguito andranno a integrarsi con quelle già stanziate. Dalla fine del 2° millennio, con la diffusione del bronzo e poi del ferro, si ha un incremento della popolazione ed emergono specificità etno-culturali regionali. La presenza di idiomi di ceppo italico, celtico, venetico/">venetico, iapigio (indoeuropei), accanto ad altri non indoeuropei già presenti (ligure, sardo, sicano, etrusco), segnala con ogni evidenza l’arrivo in I. di più migrazioni (2°-1° millennio a.C.), non particolarmente ricche di effettivi, ma capaci di imporsi e di modificare l’assetto politico-territoriale dell’Italia.
Il territorio fu poi egemonizzato da Roma, e dalla metà del 1° sec. a.C. unificato dal punto di vista statutario (cittadinanza, estensione del nome Italia), ma il fondamentale assetto etnico non fu mai uniformato a quello romano. Esso, consolidato in circa 1500 anni, si conservò stabile anche per il seguito. Le incursioni barbariche e le fasi di predominanza politica dell’uno o dell’altro popolo (Goti, Longobardi, Arabi e così via), a partire dal 6° sec. d.C. incisero sull’assetto sociale e territoriale, ma non su quello demografico, data la scarsità di effettivi: i Longobardi, il gruppo più numeroso giunto in I., erano al massimo 200.000. Più rilevante sotto il profilo numerico fu certo la continua immigrazione, cospicua dal 2° sec. d.C., di piccoli gruppi o individui, che però furono rapidamente assimilati.
Si ritiene che il territorio italiano ospitasse già circa 4 milioni di individui intorno al 5° sec. a.C.; gli abitanti sarebbero raddoppiati nel mezzo millennio successivo, e sarebbero rimasti attorno agli 8-10 milioni fino al 17° sec., al di là di decimazioni anche rilevanti (guerra gotica nel 6° sec., pestilenze nel 14° e nel 17° sec.); nel corso dei sec. 18°-19°, presero a crescere in maniera intensa, raggiungendo i 26 milioni nel 1861. Nel corso dei 100 anni seguenti, la popolazione raddoppiò; in realtà, tenuto conto delle perdite causate dall’emigrazione all’estero e dagli eventi bellici, il raddoppio si realizzò ben prima della Seconda guerra mondiale.
I miglioramenti qualitativi furono dapprima relativamente lenti (mortalità infantile ancora elevata, contenuta durata della vita media). Nella seconda metà del 20° sec., industrializzazione,crescita economica, abbandono delle campagne, modificazioni nei modelli familiari, calo dell’emigrazione, invecchiamento della popolazione, femminilizzazione del lavoro, aumento dell’istruzione, crescita dei consumi, mobilità sociale e territoriale hanno del tutto trasformato il quadro. La natalità è scesa a livelli bassissimi (sotto il 10‰ annuo) e così la mortalità (attorno allo stesso valore), compresa quella infantile, oggi ai minimi mondiali. Come conseguenza, si hanno crescita nulla o lievi decrementi (qualche decina di migliaia di unità all’anno), allungamento della speranza di vita (circa 82 anni: non raggiungeva i 64 nel 1951 e i 45 nel 1901), invecchiamento della popolazione (un quinto degli abitanti ha più di 65 anni), che prelude a un futuro innalzamento della mortalità. Tutti questi indicatori sono tra i più accentuati a livello mondiale; sono tuttavia marcate le differenze interne e le regioni meridionali presentano una struttura demografica più equilibrata. L’alfabetizzazione della popolazione adulta è di fatto realizzata, e oltre un terzo della popolazione ha titoli di studio superiori. Il reddito medio per abitante (21.873,8 euro, stima 2008) conferma la posizione dell’I. tra i paesi più ricchi, malgrado rilevantissime differenze nella distribuzione sociale e regionale del reddito stesso: quasi tutta la popolazione (circa 5.000.000 dei 6.500.000 ab. totali) che vive al di sotto della soglia di povertà si concentra nel Mezzogiorno.
A partire dagli anni 1970, mentre si esauriva l’emigrazione italiana all’estero, una consistente immigrazione è venuta a sostenere i tassi demografici e la popolazione ha ripreso a crescere. Gli stranieri in I. sarebbero quasi 4 milioni (oltre il 6% della popolazione; stima del 2007), stanziati prevalentemente nel Nord, dove vanno a compensare il deficit demografico, e nelle grandi città, dove rispondono alla domanda di impieghi in attività abbandonate dalla forza-lavoro italiana (edilizia, servizi alla persona, piccolo commercio). Gli immigranti provengono da un gran numero di paesi, con prevalenza di quelli europei orientali e circummediterranei. L’emigrazione interna, massiccia per tutto il 20° sec. (dalle campagne alle città) e soprattutto nel secondo dopoguerra fin verso il 1970 (dal Sud al Centro e al Nord), si è affievolita salvo verso le regioni del Nord-Est, in costante deficit di manodopera.
La distribuzione degli abitanti è difforme, come appare considerando anche solo la distribuzione dei centri urbani. Il processo di inurbamento, avviato nell’Ottocento, ha portato in città circa il 68% degli Italiani (2008). Ai primi del 20° sec. solo 12 città superavano i 100.000 ab., e tra queste Napoli era la più popolosa; cent’anni più tardi le ‘grandi’ città erano una cinquantina, per la metà nel Nord e per un quinto nel Centro. Da tempo Roma è il Comune più popoloso, seguito da Milano, Napoli, Torino. I processi di espansione, conurbazione, gemmazione, assorbimento hanno generato aree urbane dai confini fluidi e molto incerti e comunque non più identificabili con quelli comunali delle città in senso proprio. Dagli anni 1970 i Comuni urbani hanno perduto popolazione (prima quelli con oltre 100.000 ab., poi anche quelli con più di 50.000), a vantaggio di insediamenti di taglia minore, più distanti ma facilmente accessibili grazie al miglioramento dei trasporti e alla motorizzazione privata.
Il flusso in uscita dalle città è conseguenza di un addensamento eccessivo, specie nelle aree centrali (centri storici), cui facevano seguito costi più elevati e peggioramento della qualità della vita, spingendo gli abitanti fuori dalle città. Solo negli ultimi decenni i centri storici hanno conosciuto una rivalorizzazione (ma non il reinsediamento di abitanti).
L’espansione urbana ha amplificato la modificazione del paesaggio e il deterioramento del reticolo idrico, della copertura vegetale e dell’atmosfera: danni manifesti già a partire dagli anni 1960, enfatizzati dall’urbanizzazione e dal modello di ‘città diffusa’. Speculare è il degrado della montagna e dell’alta collina, dove lo spopolamento è causa non secondaria di incuria e quindi di dissesti del terreno e di incendi boschivi.
Condizioni economiche
Nonostante antiche tradizioni artigianali (e anche industriali), l’I. fu fino al primo Novecento un paese nettamente rurale, forse più sul piano degli assetti sociali e territoriali che su quello dell’economia produttiva. Nel secondo dopoguerra l’industria si è diffusa, dal ‘triangolo’ Torino-Milano-Genova, ad altre aree del Centro-Nord, malgrado specifiche politiche di industrializzazione del Sud e delle isole. La ripresa postbellica si basò sull’industria di base e sui lavori pubblici, grazie alla disponibilità di investimenti adeguati e di un capitale umano abbondante e di alta qualificazione, oltre che di propensioni produttive radicate e di qualità; tutto questo, malgrado l’accentuata scarsità di materie prime, soprattutto energetiche, divenuta acuta negli anni 1950 e 1960. Caratteristica fondamentale dell’economia italiana è sempre stata, infatti, la dipendenza dal commercio internazionale: dapprima come esportatrice di prodotti agricoli contro materie prime minerarie e manufatti; poi come importatrice di materie prime ed esportatrice di manufatti; infine come importatrice ed esportatrice sia di prodotti agricoli sia di manufatti, in un vivacissimo interscambio che vede seriamente deficitario solo il settore energetico. Altra caratteristica strutturale è la piccola dimensione d’impresa, in tutti i settori economici, nonostante la presenza anche di grandi complessi industriali e terziari. La piccola e media impresa ha, più della grande, sostenuto lo sviluppo economico recente; le imprese industriali con meno di 10 addetti sono il 95% del totale e occupano il 47% della forza-lavoro. Certi assetti territoriali e produttivi, come i ‘distretti industriali’, si sono estesi anche al settore agricolo, rafforzando il legame tra produzione e territorio e consentendo iniziative imprenditoriali spesso innovative.
Nel 1951 gli attivi in agricoltura erano il 42% del totale e il settore forniva il 24% della ricchezza prodotta; mezzo secolo più tardi, i valori rispettivi erano attorno al 4% e al 2%. L’industria non ha assorbito la manodopera che abbandonava l’agricoltura: dalla fine degli anni 1930 occupa circa un terzo degli effettivi totali (con un picco oltre il 40% negli anni 1970) e garantisce una quota di prodotto interno lordo analoga, malgrado un recente calo a circa il 27%. Il settore in espansione è stato, quindi, il terziario, che occupa oltre i due terzi della forza-lavoro, produce il 70% della ricchezza del paese e assorbe il personale in cerca di prima occupazione, consentendo di contenere il tasso di disoccupazione. Questo, salito oltre il 12% negli anni 1980 e 1990, nel 2009 appare assestarsi intorno al 7,9%, ma con fortissime differenze regionali a scapito del Sud. È tuttavia difficile valutare il peso dell’economia sommersa, molto rilevante, specie nel Mezzogiorno, sia per produzione (almeno il 15% del prodotto interno lordo complessivo) sia per occupati (3 milioni stimati).
Attività agricole
Prima della Seconda guerra mondiale, l’agricoltura capitalistica in Italia era presente quasi solo nella Pianura Padana; nelle regioni centrali predominava la piccola azienda a conduzione diretta o mezzadrile; al Sud erano ancora presenti i latifondi, eliminati a partire dalla riforma agraria (1950). Netta era la frammentazione fondiaria, ancora tale malgrado il calo incessante e rapido del numero di aziende. Dagli anni 1950 e 1960, frammentazione, redditività troppo bassa (a causa del regime dei prezzi) e variazioni nei modelli sociali indussero gran parte della popolazione delle campagne all’abbandono delle proprie sedi e della propria professione, sancendo il passaggio da un’economia agricola (e commerciale) a una fondata sull’industria e sui servizi.
Tuttora coesistono in Italia due tipi fondamentali di agricoltura: quella insulare e peninsulare, basata su olivo, vite, agrumi e ortaggi (e un tempo integrata con l’allevamento ovino); e quella continentale, segnata da cereali, alberi da frutto, foraggi e colture industriali (integrata a sua volta con l’allevamento bovino e suino). Questi due tipi, peraltro, sempre più sfumano l’uno nell’altro, per la crescente attenzione dei piccoli proprietari (anche nel Mezzogiorno) alle sollecitazioni del mercato; ma anche per una certa ripresa, nelle aree collinari di tutta I., di produzioni ortofrutticole biologiche e di qualità, che tendono a sostituirsi a quelle di massa e contrastano la riduzione delle superfici coltivate (l’incolto è pari a circa il 19% del territorio); nella stessa direzione va la diffusione di aziende polifunzionali (agriturismo, produzioni agroalimentari dirette).
I seminativi, che occupavano più della metà delle terre agricole nel 1951, sono scesi (2005) al 32%, ma presentano una produttività molto più elevata. Restano importanti le produzioni di cereali, vite e olivo, ortaggi, frutta, con andamenti corrispondenti soprattutto all’andamento dei mercati internazionali. Una fortissima espansione dei cereali, per es., fino al raddoppio delle produzioni nel giro di due o tre decenni, sembra essersi esaurita a fronte della maggiore convenienza ad accedere al mercato estero; analoghe le tendenze delle colture industriali (barbabietola da zucchero, oleaginose); più stabili o in crescita le produzioni di ortaggi e di frutta, che interessano nel loro insieme soprattutto il Sud, anche grazie all’espansione delle aree irrigate e alle coltivazioni forzate (primizie). Da decenni la vitivinicoltura si va convertendo a produzioni di qualità certificata, benché conservi anche un primato quantitativo a livello mondiale (conteso dalla Francia); analogo è il caso dell’olivicoltura e di produzioni ortofrutticole a garanzia di origine. Il ruolo del mercato estero è aumentato a dismisura: sia come fornitore di cereali, sia come destinatario di ortaggi, frutta e prodotti derivati.
Non diverso appare l’andamento delle produzioni zootecniche: il numero di bovini, dapprima aumentato in maniera sensibile, è sceso al di sotto dei 7 milioni (quanti nella prima metà del 20° sec.), benché la produzione di latte e derivati sia aumentata; gli ovini e più ancora i caprini registrano un calo continuo, solo di recente rallentato; più stabile la quantità di suini. Alcuni specifici segmenti (per es., l’allevamento di bufale) segnano invece progressi rapidissimi legati alla domanda di mercato. Anche per i prodotti animali (compresi quelli ittici), una parte crescente del consumo viene garantita dalle importazioni.
Attività industriali
I settori automobilistico, siderurgico e petrolchimico sono alla base dell’industrializzazione postbellica in Italia. Rilevante fu e rimane il peso della FIAT, all’origine della motorizzazione di massa, della domanda di prodotti siderurgici (alimentata anche dall’edilizia e dai lavori pubblici), del potenziamento della rete stradale e della costruzione di quella autostradale, della formazione di un vasto indotto produttivo, nonché dell’avvio delle migrazioni Sud-Nord. La siderurgia fruì degli investimenti pubblici del dopoguerra e della possibilità di localizzare sulle coste impianti a ciclo integrale, che fornivano prodotti anche ad altri paesi della CECA. Simile il caso dei comparti petrolifero e petrolchimico, con centri litoranei di raffinazione e di produzione petrolchimica di base, il cui approvvigionamento, dai paesi del Sud del Mediterraneo o dai paesi del Golfo Arabico via Suez, aveva costi più bassi rispetto all’Europa occidentale, e che fornirono prodotti raffinati e chimici di base ad altre aree della Comunità.
Il settore automobilistico, tra alti e bassi congiunturali, conserva un primato nel quadro manifatturiero italiano e una certa rilevanza a livello europeo e mondiale. Tra le costruzioni meccaniche hanno poi grande importanza la cantieristica navale, gli elettrodomestici e la produzione di macchine utensili, dove l’I. vanta posizioni di primato mondiale. Gli altri due settori di base hanno invece conosciuto un ridimensionamento, in conseguenza sia della crisi energetica del 1973 sia dell’emergere di altri produttori mondiali (per la siderurgia). Le 17 raffinerie italiane in esercizio hanno visto di recente un aumento della loro produzione complessiva, ma senza recuperare i totali degli anni 1970. Notevole è il ruolo dell’I. per il transito di condotte: sia oleodotti, che riforniscono anche altri paesi, sia gasdotti (33.000 km di tubazioni), capillarmente ramificati in I. e a servizio pure di altri Stati. La diversificazione dei fornitori di energia è marcata, anche se netta è la prevalenza di Algeria (per il gas), Libia, paesi del Golfo e Russia (per il petrolio). La produzione siderurgica, dovuta soprattutto a piccoli e medi impianti che lavorano soprattutto acciai speciali, ha recuperato e leggermente migliorato le dimensioni produttive precedenti la crisi (10 milioni di tonnellate di ghisa, 29 di acciai). Questi tre comparti industriali avrebbero anche dovuto promuovere l’industrializzazione del Mezzogiorno, ma il processo non ha avuto i risultati attesi. Del resto, gli investimenti industriali italia;ni, a partire dalla fine del Novecento, si sono diretti soprattutto verso iniziative di delocalizzazione all’estero di produzioni o segmenti di produzione, dove le condizioni fiscali e del mercato del lavoro consentissero una redditività maggiore. Un’industria meridionale si è tuttavia venuta formando, anche se con capacità produttive complessivamente modeste; fanno eccezione diversi casi esemplari, presenti anche in settori (avionica, elettronica) ad alta tecnologia. Gran parte dell’industria italiana fa comunque riferimento a comparti differenti dall’industria di base. Segnata dalla propensione ai beni di consumo (mobili, tessuti e abbigliamento, elettrodomestici, arredamento, agroalimentare), la produzione tocca pressoché tutti i comparti, spesso occupando posizioni di rilievo nel mercato mondiale.
Attività commerciali.
Il commercio con l’estero è cresciuto rapidamente e ha superato i 300 miliardi di euro all’anno nell’importazione e nell’esportazione. I paesi corrispondenti commerciali dell’I. sono numerosissimi, ma il ruolo di quelli dell’Unione Europea è andato sempre aumentando. Più o meno leggermente deficitaria fino agli anni 1980, la bilancia commerciale ha avuto per qualche anno surplus anche consistenti, assestandosi poi su un sostanziale pareggio (a parte situazioni congiunturali come nel 2006 e in anni seguenti, quando il forte aumento del prezzo del petrolio ha sbilanciato i conti).
Vie, mezzi di comunicazione e turismo
La struttura della rete ferroviaria italiana (oltre 16.000 km) risale ai primi decenni del Novecento. Si sono susseguiti ammodernamenti (elettrificazione) e potenziamenti (raddoppi di linee, tratte ad alta velocità), ma anche soppressione o ridimensionamenti di tratte poco redditizie (fig. 2). La ferrovia trasporta soprattutto passeggeri (oltre 540 milioni nel 2006; 77 milioni di tonnellate di merci).
La rete stradale ha conosciuto, dalla metà del 20° sec., un’espansione eccezionale: al 2004 erano in esercizio 450.000 km di strade extraurbane, di cui 6500 autostrade (fig. 3). Dopo una fase di investimenti nelle autostrade, si è estesa la viabilità locale, migliorando l’accessibilità di tutte le località abitate del paese. Insieme con altri fenomeni legati alla logistica produttiva e commerciale, questo ha confermato il ruolo del trasporto su gomma nel movimento delle merci (1,4 miliardi di tonnellate nel 2005), per tacere di quello passeggeri.
La navigazione di cabotaggio è intervenuta (2005) con 159 milioni di tonnellate di merci. Il traffico marittimo che riguarda i porti italiani è però più rilevante: poco meno di mezzo miliardo di tonnellate di merci sbarcate o imbarcate, di cui oltre 200 milioni di prodotti petroliferi. Più di 83 milioni di passeggeri hanno (2005) utilizzato i servizi marittimi. La flotta mercantile e passeggeri italiana è rilevante, anche se ha conosciuto in passato un’importanza comparativamente maggiore, e ha superato (11,8 milioni di tonnellate di stazza lorda sotto bandiera italiana) le dimensioni degli anni 1970, migliorando le prestazioni. Il sistema portuale, ritenuto pletorico e poco coordinato (una ventina di porti, tra i quali spiccano Genova e Trieste, si divide l’80% del traffico), è in corso di rinnovamento, specie per incentivare l’intermodalità e la movimentazione di merci containerizzate.
Il trasporto aereo ha visto aumentare il traffico (1,5 milioni di voli nel 2006), i passeggeri (110 milioni) e le merci trasportate (circa 900.000 t), nonché gli aeroporti: accanto ai principali di Roma (Fiumicino e Ciampino) e Milano (Malpensa e Linate) e a quelli di rango regionale consolidati, sono entrati in funzione svariati aeroporti locali sui quali operano compagnie low cost, charter e altri privati, il cui traffico risulta in costante aumento, specie nell’ambito dei trasporti internazionali.
Una buona quota degli arrivi internazionali per via aerea è fornita da turisti. Dai primi anni 1960 agli anni 1980 le presenze turistiche italiane sono aumentate di quasi 5 volte (da 52 a 250 milioni) e quelle straniere di 3,5 volte (da 31 a 107 milioni). La crescente propensione degli italiani alle vacanze all’estero ha ridotto le presenze turistiche italiane (2005) a 207 milioni, pur segnando una recente ripresa; le presenze di stranieri non hanno smesso di aumentare, raggiungendo i 148 milioni. I flussi turistici sono concentrati: in misura decrescente sui litorali (ligure, romagnolo, siciliano, pugliese); sempre più sulle ‘città d’arte’ (in primo luogo, Venezia,Firenze e Roma). Si ha una lenta diversificazione delle destinazioni, anche in virtù della presenza in I. di 50 ‘siti culturali’ inseriti nella lista UNESCO del ‘Patrimonio dell’umanità’, che spesso corrispondono a interi centri storici. L’I. costituisce la quinta meta turistica al mondo. Gli introiti turistici in passato hanno spesso da soli compensato gli esborsi per importazioni; si tratta tuttora di un settore fondamentale, con un indotto enorme e un bilancio attivo di oltre 10 miliardi di euro.
Istruzione
Il tasso di alfabetizzazione degli Italiani adulti è intorno al 98%. La Costituzione attribuisce allo Stato il compito di dettare le norme generali dell’istruzione e di istituire scuole di ogni ordine e grado. Enti e privati possono istituire scuole, ma senza oneri per lo Stato. Le istituzioni di alta cultura, le università e le accademie hanno diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato (art. 33). La stessa Costituzione sancisce che «la scuola è aperta a tutti»; che l’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita; che i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi; che la Repubblica rende effettivo tale diritto con borse di studio, assegni e altre provvidenze (art. 34). L’ordinamento scolastico attualmente in vigore può essere schematizzato in base ai tre gradi o livelli successivi di istruzione: primaria, secondaria (di I e II grado) e superiore (universitaria, artistica e musicale); il sistema scolastico comprende anche la scuola dell’infanzia.
Religione
Secondo le stime, è cattolico il 90% circa della popolazione (circa 1/3 i praticanti). L’organizzazione ecclesiastica cattolica è costituita da 226 diocesi, suddivise in 16 regioni pastorali (alle quali corrispondono altrettante conferenze episcopali regionali) e dall’ordinariato militare. La più antica comunità cristiana non cattolica indigena in I. è costituita dai valdesi (attualmente circa 25.000): hanno a Roma una facoltà teologica e tengono ogni anno un sinodo che determina le linee di comportamento e di organizzazione anche per i metodisti italiani, a essi confederati. I protestanti italiani (circa 400.000) sono rappresentati soprattutto da pentecostali, e in particolare dalle Assemblee di Dio. Circa 100.000 sono gli ortodossi, 30.000 gli ebrei, mentre intorno agli 80.000 assommano gli aderenti alle religioni orientali. Difficili sono infine le statistiche per i musulmani (che con gli immigrati provenienti soprattutto dai paesi nordafricani sarebbero circa 1 milione) e per i Testimoni di Geova (circa 230.000).
La Costituzione della Repubblica Italiana ha consacrato nell’art. 8 il principio dell’uguaglianza nella libertà di tutte le confessioni e nell’art. 19 ha garantito la libertà religiosa come diritto alla libertà di coscienza e di culto. Viene considerata separatamente da quella delle altre confessioni la posizione della Chiesa cattolica, i cui rapporti con lo Stato sono regolati dai Patti Lateranensi, rivisti con un nuovo Accordo tra la Santa Sede e la Repubblica Italiana, firmato il 18 febbraio 1984. Per i culti acattolici l’art. 8 della Costituzione italiana dispone che abbiano diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, se non contrastano con l’ordinamento giuridico italiano.